Tra America e Italia, tra cinema e serie televisive, il racconto della criminalità organizzata di stampo mafioso (in senso lato) ha dato origine ad alcuni grandi romanzi seriali, che hanno saputo egregiamente cogliere caratteristiche e contraddizioni della società del tempo. In che modo e quanto queste opere hanno cambiato la percezione della comunità italiana all’estero?
Gomorra – la serie (qui la puntata del nostro podcast) è probabilmente il più grande show televisivo seriale italiano: il migliore secondo la critica, il più visto dal pubblico, il più venduto all’estero. I numeri del suo successo sono senza precedenti. 5 stagioni per 58 episodi, più un lungometraggio (L’Immortale), nell’arco di 7 anni (l’esordio è del 2014), che hanno trasformato il panorama della serialità italiana. O meglio, completato una trasformazione iniziata pochi anni prima con Romanzo criminale, di cui abbiamo parlato qui. Quinta tra le produzioni non americane più importanti dell’ultimo decennio (2010-2020) secondo la prestigiosa classifica del New York Times.
Al principio fu un romanzo di Roberto Saviano (il suo primo libro: Gomorra – viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori 2006), che ha venduto 10 milioni di copie nel mondo ed è stato tradotto in 52 lingue. Segue la pluripremiata trasposizione cinematografica ad opera di Matteo Garrone (Gomorra, Fandango, 2008).
Gomorra – la serie è invece una produzione Sky Atlantic, Cattleya, Fandango e Beta film; è stata distribuita in 170 paesi di tutto il mondo, superando ogni italico record e le aspettative degli stessi autori e produttori. Saviano ne supervisiona ogni sceneggiatura, mentre la regia è firmata principalmente, almeno per le prime due stagioni, da Stefano Sollima(ACAB, Suburra, Adagio), che ne è anche supervisore artistico.
Gomorra, dal libro alla serie
Dal libro alla serie, passando per il film (senza dimenticare lo spettacolo teatrale di Mario Gelardi) il soggetto ha subito una radicale metamorfosi. Il racconto-reportage sul complesso e tentacolare mondo della camorra è diventato inizialmente un romanzo epico sul regno della famiglia Savastano, famiglia dominante nella malavita di Secondigliano. Le sue figure principali sono il padre Pietro (Fortunato Cerlino) – boss vecchio stampo che lotta ferocemente per non perdere il dominio sulla zona – e il figlio Gennaro, detto Genny (Salvatore Esposito), vero protagonista della serie assieme a Ciro di Marzio (Marco D’Amore), braccio destro del capo clan, giovane e terribilmente affamato di potere. Il rapporto tra Genny e Ciro diventa presto il tema dominante di questa eccezionale saga gangster crime. Fino al fiabesco finale (come vedremo più avanti).
Tra omicidi, soldi, tradimenti, sangue e proiettili, Roberto Saviano, da consulente “ci aiuta a non semplificare, a districarci in questa realtà complessa […] perché ogni dettaglio sia credibile” dice Sollima. “Sia chiaro, raccontiamo un’anomalia, la Campania è piena di gente perbene.” Eppure proprio l’aspetto prepotentemente epico della narrazione, inizialmente incentrata sulle sanguinose lotte di potere per accaparrarsi le piazze di spaccio di Secondigliano e in seguito di tutta Napoli (solo in un secondo momento verranno approfondite le ramificazioni con il mondo degli affari e della politica), per quanto curato e dettagliato (o forse proprio per questo), ha comportato non pochi problemi nella ricezione dello show.
Scontri sanguinosi per il controllo dello spaccio di droga
Rispetto allo straordinario film di Garrone, la serie è in un certo senso meno astratta: si concentra molto più sulle faide familiari e sui violenti scontri che ne vengono. E questa perpetua mattanza si deve principalmente al controllo sullo spaccio di droga (cocaina in primis), vero motore economico della criminalità organizzata di Gomorra. Ogni boss gestisce una propria piazza di spaccio. Accaparrarsi le piazze significa diventare più ricchi e più forti. Così, alla fine, è tutta una questione di piazze, nelle quali scorrono fiumi di sangue e coca (com’era stato, con l’eroina e altre droghe, nella classica The Wire di cui abbiamo parlato qui).
A dire il vero, anche poco dopo l’uscita del film venne commesso un duplice omicidio che ne ricalcava perfettamente una scena (quella del solarium) e alcuni attori vennero poi arrestati, per l’appunto, per spaccio. Se la percezione del film è stata problematica, figuriamoci quella della serie, che ha scatenato un fiume di polemiche prima ancora della messa in onda.
Le associazioni anti camorra del territorio denunciarono il trailer poiché rappresentava Scampia come ‘il luogo del male’. Ciro Corona della coop (R)esistenza di Scampia, nell’aprile 2014 denuncia: “[…] il risultato resta un obbrobrio con scene inverosimili da film di gangster. La produzione ci disse che il copione non poteva essere stravolto perché già venduto […] resta la mitizzazione del camorrista e una spettacolarizzazione della criminalità legata al territorio.”
Trattandosi di budget milionari (16 milioni e mezzo di euro solo per la seconda stagione), sono migliaia le persone impegnate nella lavorazione del progetto. E proprio per evitare il rischio di infiltrazioni camorristiche la produzione decise di coinvolgere le associazioni territoriali.
La produzione di Gomorra e gli appetiti della camorra
“Se qualche camorrista ha visto Gomorra, probabilmente si è fatto quattro risate” dice invece Marco D’Amore (interprete e anche regista di diversi episodi). “Quando abbiamo girato la scena della prima serie in cui, con Genny, facciamo fuori un tossicodipendente a Scampia, c’era una folla a guardarci. I ragazzini ci davano consigli, spiegavano come dovevamo impugnare la pistola, avvicinarci alla vittima e sparare: le scene che ci divertivamo a girare, le avevano viste decine di volte.”
Ad ogni modo i veri proprietari di ‘casa Savastano’ sono finiti sotto processo con l’accusa di tentata estorsione alla produzione. Tre vigili sono invece accusati di essersi intascati 100 euro a testa per chiudere interamente una strada al traffico, per girare una scena. Poca cosa, insomma.
Più pericoloso forse l’entusiasmo degli spettatori: l’attore Fabio De Caro, il cui personaggio Malammore ha l’ordine di uccidere una bambina (per ritorsione), ha avuto non pochi problemi con alcuni spettatori napoletani che, a quanto pare, stentavano a separare la finzione dalla realtà.
Antieroi criminali italiani, e il raffronto con I Soprano
Grande orgoglio tricolore, apice di una stagione seriale iniziata con Romanzo criminale (di cui abbiamo parlato qui) e proseguita con Suburra, Faccia d’angelo, Zero zero zero e, appunto, questa Gomorra. La fascinazione del male attraverso la carismatica figura dell’antieroe criminale, in opposizione alle nostre ultradecennali Distretto di Polizia, Carabinieri, Don Matteo… Storie incentrate sulle forze dell’ordine o comunque su eroi positivi (dannatamente positivi). L’arrivo nel nostro paese di Sky e delle successive piattaforme in streaming ha decisamente svecchiato la concezione stessa di produzione seriale. Che entra finalmente in competizione con capolavori americani come Breaking Bad e I Soprano.
“La verità è che ogni uomo intelligente, lei m’insegna, sogna di essere un gangster e di regnare sulla società con la sola violenza.” (A. Camus, La caduta). Proprio con I Soprano il paragone è quasi d’obbligo: la famiglia di Tony era originaria della provincia di Avellino. Paradossalmente Gomorra è molto più ‘americano’ di quest’ultimo. Almeno nel senso in cui da noi si intende americano: spettacolo puro con sparatorie, esplosioni, assassinii spietati e colpi di scena mozzafiato. I Soprano adotta invece una particolare lente prospettica per mostrarci la banale quotidianità del malavitoso, fatta di piccole cose come di grandi affari, senza nulla di epico.
Ma, come si diceva, all’estero – e soprattutto negli USA – Gomorra piace. Tanto che diversi nostri attori vengono reclutati per show statunitensi. Fortunato Cerlino compare nella serie Hannibal (è Rinaldo Pazzi, il corrotto ispettore italiano di S3), mentre Salvatore Esposito è uno dei protagonisti della quarta stagione di Fargo (è il malavitoso Gaetano Fadda).
Gomorra: personaggi da tragedia che bramano il potere
Gomorra è perfettamente calata nella realtà camorristica napoletana, realtà ben diversa da quella mafiosa siciliana e da quella della ‘ndrangheta calabrese. Una realtà di cui Saviano ha pazientemente cercato di disegnare l’anima, raccontandone minuziosamente i rituali.
Ma in questa serie talvolta si tende a parlare e agire come in una tragedia greca. Talvolta come cowboys di Sergio Leone, talvolta come gangster di vecchi film noir. La continua lotta per la scalata al potere ha qualcosa dell’Iliade omerica e al contempo di Scarface di De Palma. Troppo iconici, addirittura quasi ieratici, per essere del tutto credibili. Ogni frase è una sentenza. Ogni gesto è teatro Kabuki. Non che vi sia niente di male in questo.
Tutto avviene sempre un’atmosfera di grandiosità, che si respira negli attentati, nelle rapina, o ad ogni riunione di clan. Sembra di essere all’interno di un mondo sacro e rituale, dove il potere – per cui si è disposti a sacrificare tutto e tutti (Ciro arriva a strangolare la moglie per paura possa parlare con la polizia) – è quasi un’entità astratta, un sommo bene di stampo teologico medievale. La fame di potere è sì fame di soldi, ma prima ancora è fame di rispetto e dignità: per questo nella cultura malavitosa napoletana, a differenza delle altre due sopracitate, la ricchezza è qualcosa da esibire, addirittura da ostentare. Il quartiere deve temerti ma deve innanzitutto adorarti.
Realismo, manierismo, melodramma e stereotipi
Gli affari sono affari, ma a Napoli ‘o core (il cuore) viene prima di tutto. Questo è il nostro aspetto, per così dire, esasperatamente melodrammatico che tanto piace all’estero. Tanto da creare il seguente paradosso: Gomorra piace agli americani per questa stereotipata italianità e agli italiani proprio per la sopracitata americanità.
In questa serie convivono felicemente realismo e manierismo. La mitizzazione delle guerre di camorra avviene attraverso l’uso di un linguaggio senza filtri – il napoletano stretto (anzi il dialetto di Scampia) – e attraverso la continua esibizione di una violenza parossistica. Protagonista assoluta di ogni puntata è la morte, in un crescendo di omicidi per cui nessuno sembra destinato infine a sopravvivere. Perché in Gomorra muoiono praticamente tutti.
L’elenco dei morituri di Gomorra sarebbe assai lungo. Alcuni di loro sono davvero indimenticabili: penso a Salvatore Conte (Marco Palvetti), ossessionato dai trans e dalle processioni religiose, che fuma la sigaretta elettronica come voto di rinuncia. A Scianel (Cristina Donadio), che trascorre i pomeriggi facendo shopping in boutique o giocando a carte con le amiche, mentre di sera, ascoltando musica neomelodica partenopea con le cuffie, balla da sola mimando il cantato con un vibratore a mo’ di microfono. E a Valerio (Loris De Luna), ribattezzato Vucabulà, un ragazzo della Napoli bene irresistibilmente attratto dalla gang di Forcella. ‘O Principe, ‘o Nano, ‘o Mulatto, ‘o Zingariello, ‘o Trak – uno dei Ragazzi del Vicolo (’e guagliune d’ ‘o vico), questi i suggestivi nomi di altri pittoreschi e morituri personaggi della serie.
Da Scampia alla conquista del mondo
La trama, invece, è cosa difficile da riportare, anche solo per brevi cenni. Basterà sapere che a Napoli gli equilibri cambiano in continuazione e il doppiogioco è all’ordine del giorno. E che Gennaro Savastano, da bamboccione viziato diventa magicamente boss spietato dopo un provvidenziale viaggio di ‘formazione’ in Honduras, mandato dalla madre per contrattare con il feroce cartello del posto. Da lì ritorna con una vistosa cresta alla moicana, pronto a reclamare il suo posto nella famiglia. Con il procedere delle stagioni si esce da Scampia – Secondigliano e si entra in una guerra che abbraccia tutta Napoli. Entrano in scena nuovi personaggi (essendo quelli vecchi quasi tutti morti), che vale la pena nominare anche solo per gli adorabili soprannomi: Sangueblù, ‘o Sciarmante, i fratelli Capaccio, ‘o Stregone.
L’unica coppia che fino al tragico finale si salva è naturalmente quella di Ciro (soprannominato – e a ragione! – l’Immortale) e Gennaro. Una coppia imperniata sulla bromance (particolare tipo di relazione che verrà ripreso, con tutt’altra parabola, in Suburra). Fin dall’inizio in bilico tra amore e odio. Dapprima fratelli, poi si sparano, si ammazzano i congiunti, si cercano, si mancano, si minacciano, si insultano, si aiutano… Ne L’Immortale del 2019, diretto dallo stesso Marco D’Amore, si racconta come Ciro sia miracolosamente sopravvissuto (molto americano) alla morte per mano di un riluttante Genny. La sua storia prosegue nella malavita della Lettonia, assieme a compaesani, russi e fantasmi del passato. Alla fine del film, morti come sempre tutti gli altri, arriva proprio Gennaro: i due si guardano, in silenzio (molto melodrammatico). Questo è il prologo alla quinta e ultima stagione.
“La verità è che per quelli come noi i sogni non esistono” dice Gennaro sul finire di S4, che lo vede nuovamente trasformarsi da imprenditore occulto, intento a costruire il secondo polo aeroportuale più grande della Campania, a boss latitante rinchiuso in un bunker, come fu il padre. Il tutto passando anche per le strade di Londra, per le quali il nostro si aggira minaccioso e schiumante rabbia: “Where is my gold?” è il leitmotiv della puntata girata nella capitale inglese.
La fine di una grande avventura
Un’avventura, quella di questa serie, che è andata trasformandosi narrativamente nel mentre andava trasformando il panorama produttivo italiano. E la nostra sensibilità di italici spettatori.
Nel viaggio di Gomorra le eventuali ridondanze e forzature, soprattutto nelle ultime stagioni, non indeboliscono minimamente la potenza complessiva di questo show. Divenuto a pieno merito pietra miliare nel nostro orizzonte seriale.
Tutte le storie, prima o poi, finiscono. In questa tutti i temi della camorra in particolare, e della malavita italiana in generale, dagli illeciti alle faide, sono stati doviziosamente inscenati. Con ambientazioni talmente belle e fatiscenti da risultare commoventi. Con dialoghi che a tratti si sublimavano in musica. Una colonna sonora – ad opera dei Mokadelic – coinvolgente, ipnotica, talvolta straziante – talvolta neomelodica (tipo trap alla Mario Merola). Con attori di prima classe, nessuno dei quali proveniente dal mainstream. E una regia precisa e passionale.
Con un’ispirazione, e un’aspirazione, americana – ma un cuore partenopeo.